I CONTRO DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
La Costituzione Italiana è un documento scritto in un’epoca lontana ormai anni luce da qui.
I tempi attuali (2017) segnano grandi sconvolgimenti e cambiamenti, e molti cittadini, ormai informati ed edotti a vari livelli e in vari modi su parecchi argomenti, molti ordini di grandezza oltre il livello medio di consapevolezza avuto ai tempi della scrittura della costituzione, si ritrovano a discuterne a vari livelli e in vari modi.
Alcuni, molti, ne evidenziano le bellezze e la necessità assoluta di applicarla, altri invece sono molto più critici su questo documento.
Riporto qui un post apparso su Facebook, compilato da Piero Muni, perché lo ritengo molto più di un post: una interessantissima raccolta di spunti meditativi importanti, su una serie davvero lunga di punti a sfavore della difesa della famosa costituzione, che meritano di essere ricordati.
Buone riflessioni!
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LA COSTITUZIONE ITALIANA
La Costituzione della Repubblica italiana fu frutto del lavoro di un’apposita Assemblea Costituente composta da 556 deputati, per la maggior parte democristiani (35,2%), socialisti (20,7%) e comunisti (20,6%), votati dai cittadini contestualmente al referendum istituzionale in cui gli italiani furono chiamati a scegliere tra Repubblica e Monarchia, il 2 giugno 1946. In senso stretto però la Costituzione fu redatta da una Commissione di 75 membri scelti dalla stessa Assemblea, i quali la presentarono a quest’ultima per la discussione il 31 gennaio 1947. Il testo definitivo, in 139 articoli, venne promulgato il 27 dicembre 1947 ed entrò in vigore il 1 gennaio 1948. Al popolo venivano riconosciuti la sovranità (art. 1), l’iniziativa nella formazione delle leggi, a condizione che fosse sostenuta da 50 mila firme (art. 71), il potere di abrogazione delle stesse mediante referendum (art. 75) e la facoltà di rivolgere petizioni alle Camere (art. 50).
La sovranità del popolo era però solo nominale. I cittadini, infatti, erano obbligati ad eleggere i propri rappresentanti (artt. 56-58) e a trasferire ad essi il potere legislativo (art. 70). Il risultato è che l’iniziativa delle leggi compete al Governo e a ciascun membro delle Camere (art. 71). Il popolo è escluso. Gli è negato perfino il diritto di ratificare le leggi del Parlamento o di avvalersi di strumenti decisionali diretti, come il referendum deliberativo. L’esclusione del popolo dal potere legislativo non fu una svista, ma un atto voluto. Lo dimostra il fatto che il referendum abrogativo fu l’unico superstite di una più ampia lista di mezzi di deliberazione popolare presentata da Costantino Mortati, “che fu progressivamente falcidiata prima dalla Commissione dei Settantacinque e poi dall’Assemblea costituente. Già allora, infatti, i partiti politici, forti del consenso ottenuto con la Resistenza, come dimostravano il numero dei loro iscritti e i dati sulla partecipazione alle elezioni, si mostrarono diffidenti nei confronti di istituti che consentivano ai cittadini di intervenire direttamente nelle scelte politiche” (Pertici 2016: 121).
I dati parlano chiaro: “il popolo rimane sovrano nella retorica costituzionale ma nella realtà è desovranizzato” (Gentile 2016: 57). Esso è solo uno strumento che serve a conferire la sovranità ad altri. “Dal punto di vista della sovranità, la democrazia moderna è il trasferimento della volontà politica dal popolo ai rappresentanti, attraverso il mandato libero” (Galli 2011: 24). Il popolo entra in scena solo al momento del voto, poi si eclissa. Così, alla fine, la sovranità popolare si riduce per essere “una tra le tante finzioni escogitate dall’immaginario politico” (Mastropaolo 2011: 51). Emilio Gentile parla di «democrazia recitativa», per distinguerla dalla democrazia sostanziale, e osserva che “qualunque democrazia reale dovrebbe essere animata da un ideale di democrazia, che orienti e guidi governati e governanti verso una sempre migliore attuazione della sovranità popolare in una comunità di cittadini liberi ed eguali di fronte alla legge, tutti e ciascuno con pari dignità e nelle condizioni di poter realizzare la propria personalità” (Gentile 2016: 129).
L’assenza di sovranità dei cittadini trova conferma nel fatto che oltre l’80% delle leggi approvate dal Parlamento sono proposte dal Governo (Pertici 2016: 104), il rimanente da altre istituzioni riconosciute dalla legge, nessuna dal popolo. Di norma, le poche proposte di legge di iniziativa popolare giacciono dimenticate da qualche parte. “In effetti, le Camere non hanno l’obbligo di esaminare né tantomeno di approvare il testo presentato dai cittadini” (Pertici 2016: 119-20). Qualcuno ha perciò legittimamente sospettato che il sistema rappresentativo sarebbe una sorta di inganno deliberato. “Non è la rappresentanza che è stata inventata per fare governare il popolo, ma è il popolo che è stato inventato per far governare la rappresentanza” (Mastropaolo 2011: 54). Lo stesso principio di rappresentanza sarebbe solo una finzione, perché “nessuna maggioranza parlamentare, né tanto meno il capo della maggioranza possono rappresentare la volontà del popolo intero e neppure quella della maggioranza degli elettori” (Ferrajoli 2011: 24).
SUOI LIMITI
La Costituzione è da molti considerata uno tra i migliori progetti politici esistenti. Questo però non vuol dire che sia priva di difetti. Alcuni li abbiamo incontrati nel paragrafo precedente. Qui di seguito ne ricorderò altri.
SCARSA ATTUABILITA’
Ci sono molti punti nella Costituzione che appaiono contrastanti o che sembrano fatti apposta per non essere attuabili. Vi si promette lavoro a tutti (art. 1,4,35,36,37), oltre che una sorta di reddito di cittadinanza (art. 38), ma non si spiega come rendere effettive queste promesse. Vi si riconoscono i diritti all’uguaglianza di nascita (art. 3) e alle pari opportunità (art. 51), che però sono resi inattuabili dagli antitetici diritti della famiglia (art. 29) e della proprietà privata senza limiti predefiniti (art. 42). Vi si afferma che tutti i cittadini hanno il diritto alla partecipazione politica, economica e sociale (art. 3), ma al tempo stesso li si esclude dall’attività legislativa, che è affidata esclusivamente al Parlamento (art. 70). Vi si riconosce la sovranità al popolo (art. 1), ma solo a parole.
SCARSO REALISMO
Di fatto, le decisioni collettive non le prende mai il popolo, nel senso della totalità dei cittadini, ma solo un ristretto numero di individui. Nel corso della storia si sono visti solo governi a sovranità ristretta riconducibili ad uno di questi tre modelli: monarchia (sovranità di un solo individuo), oligarchia (sovranità di pochi individui), repubblica (sovranità di molti individui). All’interno di queste tre classiche forme di governo è possibile immaginare forme di governo assai diverse a seconda che la parte sovrana sarà rappresentata, ad esempio, dalle donne (ginecocrazia), dai soli uomini (androcrazia), dai più ricchi (plutocrazia), dai più poveri (penetocrazia), dai nobili (aristocrazia), dalle masse (oclocrazia), dai più anziani (gerontocrazia), dai sacerdoti (ierocrazia), dai più sapienti (sofocrazia), dai più virtuosi (aretocrazia), dai più alti (gigantocrazia), dai più bassi (nanocrazia), e via dicendo, tutte forme in cui è facilmente riconoscibile una parte della popolazione che esercita il potere e una parte che lo subisce. Non è mai esistito però, e dubito che possa mai esistere, un governo a sovranità universale (onnicrazia). Ne consegue che l’espressione «la sovranità appartiene al popolo» è tendenzialmente retorica e ingannevole.
SCARSA DEMOCRATICITA’
È ora giunto il momento di chiederci con Giuseppe Tamburrano “L’Italia è un paese democratico?”. Ecco la sua risposta. “È un paese libero, con i limiti che soffre la libertà in una società come la nostra in cui grandi sono le ricchezze, profonde le ineguaglianze, diffusi i privilegi, forti le corporazioni, arrogante coi deboli il potere, poche le autonomie e debole il civismo, scarsa l’educazione, elitaria la cultura. Con questi limiti l’Italia è un paese libero. Non democratico. Noi votiamo liberamente. Ma il diritto di voto attiene alla sfera delle libertà personali. Democrazia è invece partecipazione, cioè esercizio di potere. In Italia il popolo non esercita il potere né direttamente né indirettamente e non ha le garanzie circa l’uso corretto ed efficiente del potere da altri esercitato” (Tamburrano 1983: 81). La nostra Italia, concludeva lo studioso, “non è una democrazia, è un’oligarchia di partiti” (Tamburrano 1983: 82). Mi sembra di poter dire che, rispetto al quadro descritto da Tamburrano ormai trent’anni or sono, oggi la situazione politica del nostro paese non è sostanzialmente cambiata (vedi cap. XII.2).
La DR è un sistema politico non pienamente democratico, perché non riconosce la sovranità del cittadino. Nella realtà i cittadini non possono decidere alcunché, fatta eccezione della scelta dei capi, che peraltro è una scelta fittizia, perché le liste dei candidati politici vengono stilate e imposte dall’alto. “Noi non scegliamo i candidati alle elezioni. Li scelgono i partiti, cioè le oligarchie” (Fini 2004: 65). L’inclusione nella lista dei candidati non avviene per meriti personali, dei quali non esiste un metodo obiettivo e condiviso di valutazione, ma per ragioni di strategie e interessi di partito. Ciò vuol dire che i candidati non sono sicuramente i «migliori». Per di più, dovendo sottostare a logiche di partito, essi sono impediti dal perseguire liberamente una propria linea politica, ammesso che l’abbiano. Il popolo non ha nemmeno titolo per giudicare la costituzionalità delle leggi, essendo questa funzione attribuita unicamente alla Corte Costituzionale (art. 127).
Il riconoscimento della sovranità popolare è, dunque, solo un velo pietoso che serve a nascondere una realtà amara: il trasferimento coatto della sovranità dai cittadini al Parlamento. Questo è il paradosso della Costituzione: negare ai cittadini in carne e ossa quella stessa sovranità che invece è disposta a riconoscere ad una persona metaforica, ossia al popolo. Così facendo, i cittadini “sono liberi soltanto nel loro insieme, cioè nello Stato, chi è libero non è il singolo cittadino, ma la persona dello Stato” (Kelsen 1995: 54). Insomma, la Costituzione riconosce la sovranità popolare, ma solo a condizione che il popolo non la eserciti veramente. Agli eletti poi è consentito di governare senza nemmeno l’obbligo di rendere conto ai propri elettori del proprio operato (art. 67). Diceva Montesquieu nello Spirito delle leggi: “il popolo, ciò che non può fare da solo, lo rimette ai suoi ministri (II,2). Ma soltanto ciò che non può fare da solo. Oggi noi diciamo il contrario: il popolo non può fare niente da solo, ma deve rimettere tutto ai suoi «ministri», ovvero ai suoi rappresentanti” (Bobbio 1999: 375). In pratica, la DR si potrà chiamare «poliarchia” o, come osserva Bobbio, “aristocrazia elettiva” o “elitismo democratico” (1999: 375), o in qualsiasi altro modo, ma certamente non democrazia.
Il popolo non ha nemmeno titolo per giudicare la costituzionalità delle leggi, essendo questa funzione attribuita unicamente alla Corte Costituzionale (art. 127). Il riconoscimento della sovranità popolare è, dunque, solo un velo pietoso che serve a nascondere una realtà amara: il trasferimento coatto della sovranità dai cittadini al Parlamento. Questo è il paradosso della Costituzione: negare ai cittadini in carne e ossa quella stessa sovranità che invece è disposta a riconoscere ad una persona metaforica, ossia al popolo. Così facendo, i cittadini “sono liberi soltanto nel loro insieme, cioè nello Stato, chi è libero non è il singolo cittadino, ma la persona dello Stato” (Kelsen 1995: 54). Insomma, la Costituzione riconosce la sovranità popolare, ma solo a condizione che il popolo non la eserciti veramente. Una truffa vera e propria.
FUORI DAL TEMPO
Un altro limite della nostra Costituzione (l’unico non imputabile ai padri costituenti) consiste nel fatto che essa ignora gli importanti cambiamenti avvenuti nel mondo negli ultimi decenni (si pensi alla diffusione della tecnologia digitale, alla finanziarizzazione dell’economia, alla globalizzazione, eccetera), che ne esigerebbero un adeguamento.
CONCLUDENDO
I Padri costituenti hanno lasciato intendere che liberalismo sia sinonimo di democrazia e gli italiani vi hanno creduto, tanto è vero che ancora oggi essi credono di essere sovrani (cioè liberi) sol perché possono scegliersi dei capi. Non si accorgono che la democrazia è un’altra cosa. In definitiva, la nostra può essere considerata solo una buona Costituzione liberale, perché riconosce al cittadino tutti i diritti affermati dal pensiero liberale, finalizzandoli alla piena autorealizzazione della persona. “Tutti i diritti garantiti, da quello al lavoro (artt. 1, 4, 35-39, 43, 46), a quello all’istruzione e alla cultura (artt. 9, 33, 34), all’iniziativa economica (art. 41), alla tutela della proprietà (art. 42, 43) hanno un unico fine: la rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, la sua piena libertà e la sua partecipazione alla vita politica (art. 3)” (Settis 2016: 236). Una buona Costituzione liberale, ma non democratica. Se fosse democratica, dovrebbe attribuire al popolo e non al Parlamento il potere legislativo. Invece così non è. “Se si esaminano i maggiori atti aventi forza di legge, si nota che essi sono provvedimenti adottati dal governo per delega del Parlamento, oppure che sono atti approvati dal Parlamento ma proposti dal governo” (Cassese 2017: 25). Di fatto il popolo è un sovrano che non può decidere alcunché, a parte scegliere i soggetti che decideranno al posto suo e in suo nome! Ora, se è vero che democrazia significa autogoverno del popolo, ne discende che una Costituzione che esclude per principio il popolo dall’attività legislativa non può essere ritenuta democratica.
Per le ragioni su esposte, la nostra Costituzione avrebbe bisogno di una profonda revisione. Però non si fa nulla, non tanto per difficoltà intrinseche, quanto “perché i partiti sono in disaccordo e fanno valere tutto il loro potere di veto” (Bin 1998: 123).
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