Fascismo-Comunismo, luci ed ombre, una infinita lotta tra perdenti dispersi nella dualità!
Fascismo-Comunismo, luci ed ombre, una infinita lotta tra perdenti dispersi nella dualità!
L’amico Pietro Muni, “ricercatore politico”, con il quale si discute in numerosi “post politici” principalmente su Facebook, ha compilato un interessante testo confrontando i principali aspetti delle due ideologie mainstream sulle quali il popolino continua a discutere ed essere diviso, rifiutando una esplorazione ragionata dei fatti e cercando sempre di evidenziare i soli lati negativi di teorie altrui ed elogiare solo i positivi delle proprie e senza rendersi conto, stupidamente, che il loro antagonista fa esattamente la stessa cosa…
Lo propongo qui come importante e fondamentale memorandum, sperando di trovare presto ulteriori Terrestri evoluti in grado di affrontare un nuovo discorso politico OLISTICO, che comprenda la dualità e la usi come forza, invece che come debolezza.
Difficile?
SI, certo, DIFFICILISSIMO, ma non impossibile, quindi…
____________________________________________
STUDIO APERTO COMPARATIVO
CAPITALISMO: LUCI
Se il capitalismo si è affermato a livello planetario al punto da non avere più validi concorrenti, qualche ragione ci sarà. Ebbene, qui di seguito elencherò le principali cause che potrebbero spiegare lo straordinario successo di questo particolare sistema economico.
• Il capitalismo ha prodotto una ricchezza che non ha uguali nella storia. Sono aumentati i beni di consumo di massa e migliorati i servizi, come l’energia elettrica, il telefono, l’acqua corrente, il riscaldamento, i prodotti industriali, la sanità, la scuola e altro.
• Sono migliorate anche le condizioni di vita delle famiglie, al punto da indurre Francis Fukuyama ad annunciare al mondo la fine della storia (1996), come a dire che il sistema capitalista non può essere ulteriormente migliorato e va quindi considerato il capolinea della storia umana.
• Il capitalismo sembra favorire la democrazia e condizioni di pace, il che sarebbe provato dal fatto che tutti i paesi «democratici» praticano una qualche forma di capitalismo e finora non sono entrati in guerra fra loro.
• Il capitalismo dovrebbe, nel suo stesso interesse, rispettare l’ambiente e conservarlo nelle migliori condizioni possibili, se vuole continuare a prosperare.
• Il capitalismo sarebbe equo e giusto, perché rispetta le libertà delle persone.
• Secondo gli estimatori del capitalismo, le vertiginose differenze di reddito fra imprenditori e salariati sono più che giustificate dal fatto che l’imprenditore si assume tutti i rischi dell’azienda, mentre il dipendente può contare su un salario costante comunque vadano le cose. “Chiaramente, vi sono dei vantaggi in un sistema che consente alle persone di addossare ad altri rischi che non desidera correre e permette loro di essere pagati con una somma prefissata, qualunque sia l’esito dei processi rischiosi. Vi sono grandi vantaggi nel permettere l’opportunità di una simile specializzazione nell’accettare rischi; queste opportunità conducono alla tipica gamma delle istituzioni capitaliste” (Nozick 2000: 268).
CAPITALISMO: OMBRE
Nonostante sia comunemente considerato il sistema economico di maggiore successo della nostra epoca, il capitalismo “continua ad essere messo in discussione e contestato” (Bowles 2009: 13). Le critiche mosse a questo particolare sistema economico sono numerose e pesanti. Qui di seguito ne ricorderò alcune.
Il capitalismo ha prodotto, sì, molta ricchezza, ma l’ha distribuita in modo iniquo, generando una povertà di massa: “Un bambino su tre in Gran Bretagna vive oggi sotto la soglia di povertà, mentre i banchieri mettono il broncio se il loro bonus annuale scende a un misero milione di sterline” (Eagleton 2013: 24). A fronte di un Pil mondiale di oltre 60 trilioni di dollari e di altre risorse materiali largamente sufficienti ad assicurare una vita decente all’intera popolazione del pianeta, che sfiora i 7 miliardi, argomenta lo studioso, in realtà una vita decente è concessa solo ad 1,5 miliardi di persone e negata a tutti gli altri (Gallino 2011: 32-3).
I governi liberali riconoscono formalmente a tutti i cittadini uguaglianza di libertà, opportunità e diritti, che però, di fatto, sono relazionati alle disponibilità economiche. In pratica i cittadini più ricchi sono più liberi e hanno maggiori opportunità e diritti rispetto ai più poveri, possono non solo esercitare il potere economico, ma anche fare la scalata al potere politico, avere maggiore accesso alle fonti di informazione e ai mass media, permettersi i migliori consulenti finanziari, la migliore assistenza legale e sanitaria, e tante altre cose, che normalmente sono precluse ai poveri. Ne risulta uno stato strutturale di disuguaglianza, non dichiarato ma effettivo. “L’eguaglianza politica, tranne che sul piano formale, è impossibile nelle condizioni di capitalismo maturo” (Miliband 1970: 309). Infatti, “è poco probabile che cittadini economicamente disuguali siano politicamente uguali” (Dahl 2000: 167). Così larghe fasce della popolazione rimangono escluse dal processo democratico e si generano società duali, in cui è facile distinguere una minoranza dominante e una massa di sudditi.
Avendo il controllo della politica, i ricchi possono volgere le leggi a proprio vantaggio, e questo può bastare a spiegare perché nei paesi capitalisti i ricchi diventano sempre più ricchi e, diventando sempre più ricchi, diventano anche sempre più potenti. “Il dato politico fondamentale delle società capitalistiche avanzate […] è il perdurare del potere economico privato, sempre più concentrato. Grazie a tale potere, gli uomini – capitalisti e manager – che lo detengono godono di una posizione di assoluto predominio nella società, nel sistema politico e nella determinazione della politica e dell’azione dello stato” (Miliband 1970: 309). Secondo Thomas Piketty, nei prossimi decenni il mondo sarà di proprietà privata di pochi miliardari, per via di un processo “in cui i paesi ricchi diventino proprietà dei loro stessi miliardari o, più in generale, in cui l’insieme dei paesi – compresa la Cina e i paesi produttori di petrolio – diventi proprietà dei miliardari e degli altri multimilionari dell’intero pianeta” (2013: 720).
Il capitalismo consente che i cittadini abbiano introiti ampiamente diversificati, legati più a fattori esterni (dinamiche di mercato, ruoli politici, organizzazioni di vario genere) che a effettivi meriti personali. Non esistono, infatti, metodi di valutazione del merito. Esistono solo le vendite, gli incassi, le perdite e i profitti. Quello che più conta non è la qualità del servizio, ma il numero di clienti e il giro di affari. Il programma televisivo migliore è quello che fa più audience, il libro, la rivista, l’automobile, il libero professionista, l’imprenditore, il politico tanto valgono quanto riescono a vendere e a vendersi. Lo stesso progresso tecnologico e industriale è consentito solo nella misura in cui sia in grado di offrire nuovi prodotti da commercializzare o lo sfruttamento di nuovi mercati. La qualità viene valutata attraverso la quantità.
Il capitalismo è poco interessato a questioni morali ed etiche: il parametro di valutazione dei valori e delle azioni è il denaro. Buono è ciò che procura denaro, cattivo è ciò che impoverisce. “L’oro apre tutte le strade. L’oro che apre tutte le strade è diventato il Dio della nazione. C’è un solo vizio, la povertà. C’è una sola virtù, la ricchezza. Bisogna essere ricchi o disprezzati. Se si è effettivamente ricchi, si mostra la propria ricchezza in tutti i mezzi immaginabili. Se non si è ricchi, si vuol diventarlo per tutte le vie immaginabili. Nessuna è disonesta” (Diderot 1773: 263). Nessuno si chiede se la fortuna del grande imprenditore sia il frutto di meriti personali o di truffe, se derivi da un saper fare o piuttosto da frodi, rapine o sfruttamenti, così come nessuno si chiede se il povero debba la sua condizione a limiti personali o a cause esterne. Contano solo i fatti e i fatti dicono che chi ha più soldi è più bravo e chi è povero è un inetto. Il capitalismo considera buono tutto ciò che produce un profitto. Non c’è un’etica capitalistica, a meno che non si voglia considerare per tale la cosiddetta etica protestante di weberiana memoria, che vede nel successo e nella ricchezza un segno tangibile dell’approvazione divina e dell’elezione alla vita eterna (Weber 1996: 213-4).
Nella logica capitalistica, non c’è nulla di proibito. Perfino “il crimine è semplicemente un’attività economica tra le altre, che si dà il caso abbia un prezzo elevato (il carcere) nel caso si venga presi” (Thurow 1997: 172). Il capitalismo mira a soddisfare ogni possibile interesse, tanto il più nobile quanto il più perverso e lascia i singoli individui liberi di stabilire cosa sia bene per sé: “la scelta di essere un criminale è legittima quanto quella di farsi prete” (Thurow 1997: 302). Le attività di tipo mafioso, il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione, la pornografia, il traffico di armi, il commercio di organi umani, lo spaccio di droghe, i furti, le rapine, i sequestri di persone, le corruzioni, le concussioni, le truffe di ogni tipo, e ogni altra possibile azione, che ripugnano al senso etico comune, tutto ciò è valutato dal capitalismo secondo il volume di denaro che fa circolare.
Senza un codice etico, le persone vivono interamente immerse nel presente, non tengono conto della esauribilità delle risorse e continuano a praticare “lo sfruttamento non sostenibile delle risorse della Terra” (Bowles 2009: 71). Non si curano delle possibili conseguenze delle loro azioni, come l’inquinamento e il degrado ambientale, che lasciano volentieri in eredità alle generazioni future. Alla fine, abbagliate dai propri capricci, esse perdono il senso della cittadinanza attiva e la piena padronanza di se stesse e diventano semplici «clienti» del mercato, incapaci di esercitare un ruolo politico a favore del bene comune (Barber 2010).
I proprietari dei mezzi di produzione spesso vivono di rendita e senza la necessità di svolgere alcuna attività lavorativa. La differenza con il sistema antico-feudale è netta: allora il proprietario doveva contribuire personalmente al buon andamento dei suoi affari, ora può limitarsi a raccogliere i frutti, come fa, per esempio, l’azionista, che nemmeno conosce la realtà produttiva, di cui in parte è padrone; allora l’artigiano doveva usare la propria testa e le proprie mani per cercare lavoro, produrre e vendere, ora l’imprenditore può programmare a tavolino le mansioni da assegnare ai singoli lavoratori salariati.
A parole il capitalista accetta la libera concorrenza, che contribuirebbe a selezionare gli uomini e i prodotti migliori e tornerebbe a beneficio del consumatore. In realtà egli è disposto a rispettare le regole della concorrenza solo quando è più forte degli altri e può schiacciarli, ma le teme in tutti gli altri casi. Così, quando ci sono più imprese di pari potenzialità, che producono lo stesso prodotto, temendo di danneggiarsi facendosi concorrenza, esse tendono a creare trust o cartelli, ovvero condizioni di monopolio o oligopolio, che finiscono per concentrare la ricchezza nelle proprie mani e danneggiare il consumatore. Nel concreto, è raro che un paese capitalista applichi pienamente la libera concorrenza, come vorrebbe invece lo spirito del libero mercato, mentre è frequente che potenti gruppi produttivi o finanziari inducano il governo ad attuare politiche protezionistiche e a favorire la conquista di nuovi mercati nel mondo con qualsiasi mezzo, a beneficio delle imprese e delle banche (Sweezy 1951). Si spiegano così gli imponenti apparati militari che, insieme al divario tecnologico, disegnano una geopolitica a due velocità, dominata da pochi paesi ricchi e potenti, primi fra i quali gli Usa, che dettano la propria legge sul resto del mondo, una legge che è fatta di guerre, sfruttamento, rapina, neocolonialismo, neoimperialismo e cose di questo genere (AA.VV. 2003).
Occorre inoltre considerare che il profitto del capitalista si può realizzare solo a condizione di una domanda sempre crescente e di un consumismo fine a se stesso. Da qui l’importanza della figura del consumatore. In teoria il capitalismo vuole che anche il consumatore venga lasciato libero di fare come meglio crede i suoi acquisti. Di fatto, tuttavia, nemmeno questa libertà viene rispettata e il consumatore in realtà è continuamente bersagliato da messaggi di ogni tipo, che hanno lo scopo di suscitare in lui sempre nuovi desideri. In effetti, anche quando il consumatore abbia comprato ciò di cui ritenga di avere bisogno, il messaggio pubblicitario continuerà a raggiungerlo senza sosta, lo insidierà, lo circuirà, lo sedurrà e, infine, lo indurrà a fare nuovi acquisti, che spesso sono oggettivamente inutili. In concreto, “il capitalismo piega le aspirazioni e i bisogni del singolo individuo alle esigenze di un sistema economico che di fatto è controllato da pochi” (Bowles 2009: 57; cf. Gallino 2009).
Le offerte del mercato appaiono così allentanti e suadenti da indurre il consumatore ad impegnare anche il denaro che spera di poter guadagnare domani e accettare un rischio che potrebbe costargli molto più caro di quanto immagini. Compri oggi e paghi domani con comode rate e senza interessi. Il consumatore che acquista a rate dev’essere sicuro almeno di mantenere le entrate attuali, ma guai se si verifica un imprevisto, una disgrazia, una nuova spesa improrogabile, un licenziamento. In questo caso egli dovrà ricorrere ad un prestito e, per pagarlo, dovrà stringere ancora la cinghia e sperare che nel futuro gli affari gli vadano sempre meglio, il che non è affatto scontato. A queste condizioni, si capisce bene come sia estremamente difficile che un consumatore medio di una società capitalista possa mai essere sereno e felice.
Oggi in un paese liberista il cittadino non è libero come si tende a far credere. È possibile, infatti, prevedere in buona misura ciò che un neonato farà nel corso della sua vita, basandosi unicamente sulla sua famiglia e sul luogo di residenza. Per esempio, per un bambino che nasca in Italia da buona famiglia, si può prevedere che egli verrà battezzato, frequenterà la scuola dell’obbligo, cercherà di inserirsi nel mondo del lavoro scegliendo l’attività meno rischiosa e più remunerativa, acquisterà un certo tipo di prodotti secondo le sue disponibilità economiche e secondo le pressioni pubblicitarie, si sposerà e metterà al mondo uno o due figli, sui quali coltiverà dei progetti finalizzati a portarli più in alto di quanto lui stesso sia stato in grado di giungere, farà di tutto per dare agli altri la migliore immagine di sé nella convinzione che ciò lo aiuterà a far quattrini, esibirà i segni della sua ricchezza come prove evidenti delle sue qualità e si preoccuperà anche di edificare un monumento sepolcrale adeguato al suo rango affinché, anche dopo morto, gli altri sappiano che egli è stato un grand’uomo.
Marx ed Engels hanno osservato che il capitalismo è un sistema economico che si è affermato in un particolare periodo storico, il che basta a smentire che si tratti di un sistema naturale. Si tratterebbe peraltro di un sistema totalmente alienante, perché aliena gli operai dal prodotto del proprio lavoro, le persone dai benefici di un ambiente in salute, molti cittadini dal pieno godimento dei diritti sociali e politici. Altro che «fine della storia», come vorrebbe far credere Francis Fukuyama (vedi cap. II.7).
Il capitalismo è un sistema intrinsecamente instabile per via dell’imprevedibilità degli investimenti, da cui dipende il futuro delle aziende e dell’occupazione dei lavoratori (vedi Keynes 1971) e non porta vantaggi per tutti, ma genera intollerabili disuguaglianze sia all’interno di uno Stato sia fra i vari Stati. Basti pensare che “la maggior parte delle differenze economiche che oggi osserviamo intorno a noi è emersa negli ultimi duecento anni” (Acemoglu, Robinson 2013: 439). Si tratta di “disuguaglianze gravi e destinate a riprodursi” (Nagel 1998: 118). Negli Stati Uniti, per esempio, il paese più ricco del mondo, “il 41% dei bambini al di sotto dei sei anni cresce vivendo in condizioni di povertà o semipovertà” (Bowles 2009: 69).
Il capitalismo non è in grado di garantire un lavoro per tutti (vedi Sennett 2006: 143). Il sistema funziona così: un’azienda assume un lavoratore solo se vede “in questa assunzione una possibilità di guadagno” (Cole 1976: 182). È in quest’ottica che si sviluppa la cultura della cosiddetta globalizzazione. Guardando al mondo come ad un villaggio, i grandi imprenditori individuano i luoghi dove la manodopera è più a buon mercato e là fanno produrre le loro merci, che poi rivendono dove c’è gente disposta a pagarli di più. “I capitalisti si arricchiscono spostando servizi, beni e risorse naturali da dove costano meno a dove sono più cari, e spostando la produzione dei beni da dove è più costosa a dove lo è meno” (Thurow 1997: 181). Siamo di fronte ad un fenomeno nuovo. “Per la prima volta nella storia dell’umanità, qualsiasi prodotto può essere ormai fabbricato e venduto ovunque. Nell’economia capitalistica, questo vuol dire che ogni merce e ogni attività produttiva saranno realizzate là dove i costi sono più bassi, mentre i prodotti o servizi finali potranno essere venduti là dove i prezzi e i profitti sono più alti. Minimizzare i costi e massimizzare i ricavi: ecco, nella sostanza, la massimizzazione del profitto, ossia il nucleo del capitalismo” (Thurow 1997: 124).
Il capitalismo privilegia le occupazioni dei ricchi (attività finanziarie) e dei colletti bianchi (attività intellettuali) e penalizza i lavori manuali. Citando R.L. Heilbroner, Paul Bowles osserva come, nelle società capitalistiche, vi è un rapporto inverso fra lavoro e retribuzione: “chi lavora di più e fa i lavori più duri viene pagato meno, mentre chi non fa nulla vive nell’opulenza” (Bowles 2009: 59). I ricchi come i vecchi aristocratici, dunque, ma forse anche peggio, perché “hanno la maggior parte dei vizi dell’aristocrazia senza possederne le virtù” (Lasch 1995: 43). “Sono lieti di pagare per avere delle scuole private e di alto livello, per una polizia privata, per dei sistemi privati di raccolta dell’immondizia, ma sono riusciti a liberarsi, in misura notevole, dall’obbligo di contribuire alle finanze pubbliche” (Lasch 1995: 45).
Il capitalismo tende a monetizzare ogni cosa, lo abbiamo detto. Da questo processo non si salva nemmeno l’ancestrale istituto familiare. Anch’esso, infatti, è sottoposto al vaglio di una fredda valutazione economica, la quale stabilisce, per esempio, che i figli non costituiscono più un vantaggio per i genitori, ma solo un onere. “Dal punto di vista dell’analisi economica, i figli sono un bene di consumo di lusso il cui prezzo è in rapida crescita” (Thurow 1997: 35). Secondo questa valutazione, non ci sarebbe più alcun vantaggio ad avere figli e così, anche il più naturale dei processi, il processo generativo, rischia di entrare in crisi.
Se da un lato, dunque, la società capitalistica favorisce il benessere delle masse, dall’altro lato crea un esercito di sconfitti: tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, non riescono ad adattarsi e a competere. Lo spirito del capitalismo è tale da non porsi “il problema del soddisfacimento globale dei bisogni” (Acquaviva 1994: 53). Al capitalista non interessa che la società sia afflitta dalla piaga della disoccupazione o dalla povertà e dalle discriminazioni. “Il fatto che il capitalismo non possa fornire la sicurezza sociale, è – scrive Cole – proprio il miglior argomento che io conosca contro la conservazione del sistema capitalistico” (1976: 188).
FINE DEL COMUNISMO?
Nessuno dei modelli comunisti affermatisi nel mondo ha dato prova di poter reggere il confronto con le economie capitalistiche né sul piano economico, né su quello militare e dei diritti liberali, e ciò può spiegare il declino del comunismo. “Il comunismo è crollato con il Muro di Berlino; si è dissolto insieme all’Unione Sovietica; e sembra avere definitivamente terminato la propria parabola storica a dispetto dei partiti comunisti che sono rimasti al potere dopo il 1989-1991” (Flores 2003: 184). Se fosse un fatto definitivo, la caduta del comunismo smentirebbe quanto preconizzato da Marx e dallo stesso Lenin. Va ricordato, infatti, che “nel 1917 Lenin era convinto che il capitalismo stesse per crollare in quasi tutta l’Europa; settanta anni dopo, era il comunismo a dichiarare fallimento” (De Masi 2013: 614). Ma il comunismo è davvero tramontato per sempre? “La risposta non può che venire dalla Cina, il paese più grande e numeroso dove il partito comunista continua ad avere il monopolio del potere” (Flores 2003: 184). Di certo, oggi c’è ancora chi (per es. Eagleton 2013) continua a difenderne l’impianto.
COMUNISMO: OMBRE
Parlando del movimento socialista dei suoi tempi, Marx poteva affermare: “Le classi lavoratrici hanno aderito in modo spontaneo al movimento, senza sapere dove esso le avrebbe condotte” (1878: 45). Il che significa che i socialisti non avevano elaborato un proprio progetto politico. Nemmeno Marx però aveva un proprio progetto politico (vedi cap. IV.13.). E lo ammette pure. “Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” (Marx 1846: 32). L’obiettivo di Marx non era quello di realizzare un progetto politico comunista, ma piuttosto quello di abbattere il sistema capitalistico e affidare poi al partito comunista il compito di ricostruire liberamente un nuovo sistema. Nel momento in cui si proclamava «socialismo scientifico», il marxismo non avvertiva più alcun bisogno di stilare un progetto politico di cambiamento, né di esprimere giudizi di valore o indicare vie da seguire. L’uomo di scienza, infatti, si limita a ricercare l’evidenza dei fatti senza essere mosso da ideali. “Come «sociologia della conoscenza», il materialismo storico non potrebbe quindi contenere un programma politico, dal momento che non è compito della scienza trattare del «bene” e del «male», emettere «giudizi di valore» o additare una via di «emancipazione»” (Tambosi 2001: 239).
Ebbene, in questa mancanza di un organico progetto politico, che è stato condiviso da Lenin (vedi cap. IV.18), io ravviso il principale limite del comunismo.
Anziché impegnarsi nella elaborazione di un progetto politico, Marx preferì presentarsi come portatore di una lieta novella: “La venuta del socialismo è inevitabile […]. Il socialismo è ineluttabile come «l’inesorabilità di una legge di natura»” (Mises 1949: 666). Di fatto egli fu “un profeta che comunicava al popolo la rivelazione che una voce interiore gli impartiva” (Mises 1949: 667), ovvero l’imminente salvezza per un popolo eletto, il proletariato. “Per Marx il proletariato era il popolo eletto, e il destino dell’intera umanità era legato alla sua vittoria” (Manuel 1998: 166). “Il materialismo storico «è una storia della salvezza espressa nel linguaggio dell’economia politica»” (Tambosi 2001: 249). Marx volle dunque essere innanzitutto un profeta, ma un profeta sui generis, che annunciava al mondo il crollo del capitalismo, che si sarebbe attuato spontaneamente e in tempi brevi, perché poggiava su basi scientifiche.
Ebbene, le maggiori critiche che sono state e si continuano a muovere nei confronti di Marx riguardano proprio questa sua errata previsione «scientifica». Tale è la tesi sostenuta da Vilfredo Pareto nel suo I sistemi socialisti, un’opera redatta negli anni 1897-1901 e pubblicata in due volumi nel 1902 e nel 1903, dove leggiamo che “Le previsioni di Marx e di Engels, a proposito dell’evoluzione economica, non si sono verificate. È questo un fatto, che tutte le più sottili logomachie del mondo non potrebbero distruggere. Le crisi economiche dovevano divenire sempre più intense e comportare la rovina della società «capitalista». Al contrario, esse si sono attenuate. La povertà è diminuita, o in ogni caso non è aumentata; la classe media non è scomparsa; le piccole imprese sussistono e si sviluppano, la concentrazione crescente della ricchezza non si verifica” (Pareto 1902: 693).
Marx aveva anche predetto che il comunismo avrebbe invertito i rapporti tra persone e macchine, ponendo al primo posto i valori umani e al secondo posto quelli degli impianti. Oggi sappiamo invece che i paesi a regime marxista hanno realizzato condizioni economiche per i salariati peggiori che nei paesi capitalistici.
Marx prevedeva inoltre l’affermazione della dittatura del proletariato, che avrebbe dovuto essere una sorta di democrazia diretta, una società senza classi e senza Stato basata sulla uguaglianza di tutti e sulla comunità dei beni (comunismo), dove lo Stato si sarebbe dovuto limitare a svolgere funzioni amministrative, mentre il soggetto centrale della società sarebbe dovuto essere l’individuo pienamente sviluppato in tutte le sue potenzialità. Nemmeno sotto questo aspetto le previsioni di Marx si sono realizzate.
La stessa concezione materialistica della storia è stata fatta oggetto di critica, soprattutto da parte di Max Weber, il quale ha osservato che lo sviluppo della storia non può essere letto in chiave esclusivamente economica, perché ci sono altri fattori che vi concorrono, per esempio la religione, il cui carattere non è primariamente economico. Secondo Weber, il comunismo non avrebbe tenuto nel debito conto il ruolo della religione come fonte di legittimazione del potere né il ruolo della guerra nella costituzione degli Stati nazionali.
Il comunismo reale, poi, ovvero i governi che hanno concretamente interpretato lo spirito comunista hanno finito per assumere un atteggiamento di tipo paternalistico e, col pretesto di dover badare al bene dei cittadini, hanno guidato i rispettivi paesi in modo autoritario, negando i diritti democratici e svilendo i valori democratici che pure erano contenuti nei loro programmi politici.
COMUNISMO: LUCI
Il comunismo affonda le sue radici nell’aspirazione dell’uomo ad una maggiore attenzione per i bisogni e la dignità delle persone, che l’economia capitalista non sembra in grado di soddisfare e che è compatibile con politiche di tipo democratico-partecipative. Certo, il comunismo reale sembra fallito, ma resta ancora vivo il suo anelito verso una democrazia degna di questo nome. Ebbene, anche se in futuro non dovessero esserci repliche dell’esperienza comunista, nulla ci vieta di pensare ad una palingenesi del comunismo come democrazia assembleare. Il comunismo è tenuto in corsa anche dai limiti del capitalismo (vedi cap. 2). “Il comunismo era capace di distribuire la ricchezza ma non di produrla; il capitalismo è capace di produrre la ricchezza ma non di distribuirla. Dunque il comunismo ha perso ma il capitalismo non ha vinto” (De Masi 2013: 614).
In ultima analisi, il comunismo presenta chiaroscuri, ma non è un «buco nero», un bubbone da estirpare. Resta ancora, almeno in parte, valida l’analisi economica marxiana e tutti i problemi orbitanti intorno ad essa, ai quali non è stata trovata ancora una soluzione. Il comunismo storico può aver fallito, ma il suo fallimento potrebbe essere dovuto solo al fatto che esso non è mai stato messo alla prova in modo corretto. Il comunismo insomma non sarebbe ancora morto. Tale è il punto di vista del neomarxismo.
____
In conclusione…
Ciò che ho scritto è una sintesi di uno studio che ho condotto per cercare di capire le principali ideologie che stanno alla base del nostro attuale sistema politico ed economico.
Certo, si può ampliarlo ulteriormente. Consapevole di ciò, l’ho voluto chiamare “studio aperto”, perché è e vuole rimanere aperto a contributi di chiunque sia disponibile.
Se hai del materiale e vuoi integrarlo o aggiungerlo, io sono ben felice di farti spazio. Valuteremo poi insieme se è il caso di curare una nuova edizione dell’opera, a nome di entrambi.
È questo il significato dello studio aperto.
Pietro Muni
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Fornisci il tuo contributo!